Cosa distingue il concetto di perfezionismo, spesso associato a comportamenti patologici, da quello di miglioramento continuo, che rappresenta invece la bussola nei processi di organizzazione aziendale?
Detto con altre parole: come possono persone e organizzazioni sfuggire alla trappola di un perfezionismo malato mentre inseguono l’obiettivo sano di un miglioramento che accompagna e orienta il cambiamento di un’azienda?
La risposta a questa domanda tocca anche un altro tema sensibile: come si può valorizzare il talento delle persone attraverso dei percorsi di formazione aziendale efficaci? E ancora: talento e attitudini naturali sono il presupposto indispensabile per ottenere prestazioni di eccellenza oppure sono più importanti dedizione, esercizio e metodo?
“Essendo io il più giovane a bordo […] ero propenso ad accettare come scontata la competenza degli altri. Dovevano semplicemente essere all’altezza del compito; ma, in quanto a me, mi chiedevo se mi sarei mostrato degno di quel concetto ideale della propria personalità che ogni uomo formula nel suo intimo.”
Joseph Conrad
In discipline come lo sport, ma pensiamo anche alla musica o alla ricerca scientifica, imporsi o imporre agli altri degli standard di prestazione così elevati da sembrare quasi irrealistici è il segreto del successo, il presupposto per battere un record. Equivale a una forma di competizione con sé stessi, prima ancora che con gli altri.
Questa stessa logica, applicata a un contesto d’impresa, dove la dimensione collettiva prevale su quella individuale, rischia di essere pericolosa in relazione agli equilibri interni dell’azienda, senza peraltro garantire vantaggi strategici nei confronti della concorrenza.
È possibile un approccio diverso?
L’abbiamo chiesto ad Andrea Campagnolo, che già ci aveva guidato alla scoperta dell’arte della negoziazione.
Ne è nata questa intervista dove scoprirete che la parola chiave nei percorsi di miglioramento, personale e collettivo, non è perfezione, bensì il suo contrario: errore.
Perfezionismo, perfezione e miglioramento sono tre concetti che definiscono, con sfumature diverse, la tensione verso un obiettivo. Quali sono le analogie e le differenze?
L’aspirazione alla perfezione appartiene alla natura umana, anche se non si manifesta in ogni persona. Ai nostri giorni sportivi e artisti ci forniscono una rappresentazione esemplare di questa aspirazione, percepita da tutti come positiva. In realtà anche in questi ambiti la ricerca della perfezione si traduce spesso in una sorta di ossessione che nella sua deriva estrema conduce inevitabilmente all’isolamento e all’individualismo. In un contesto come quello aziendale, connotato da dinamiche sociali e organizzative, questa deriva è di per sé negativa e ricade a pieno titolo nell’ambito del perfezionismo. Il perfezionista intimorisce gli altri e li allontana da sé, con conseguenze negative sul piano dei risultati e delle relazioni.
Il miglioramento, invece, è una tensione verso la perfezione che non alza troppo o troppo in fretta l’asticella, che sa darsi obiettivi graduali e realistici. È corretto?
Io vedo il miglioramento addirittura in antitesi al perfezionismo. Un’azienda, un team migliorano quando le persone sono lasciate libere di sperimentare, di percorrere strade nuove, anche a prezzo di errori inevitabili. Tanto più che il perfezionismo dei leader non consiste soltanto nell’imporre ai sottoposti standard di prestazione elevati e irraggiungibili, con quello che ne deriva in termini di frustrazione da un lato e di incapacità di delegare dall’altro. Spesso, dietro l’alibi del perfezionismo, in alcuni leader agisce la convinzione che ci sia un unico modo per fare le cose bene: il loro. E sono disposti a difendere questa convinzione anche a scapito dei risultati.
L’idea che dagli errori si impari appartiene alla saggezza popolare. Ma possiamo permetterci questo approccio in un contesto aziendale, dove ci si confronta con regole interne e concorrenza esterna?
Imparare dagli errori presuppone il rigore di un metodo, non l’anarchia. È un tema affascinante, che è stato affrontato con grande efficacia da Anders Ericsson, nel famoso manuale Numero 1 si diventa, capostipite di una schiera di pubblicazioni sul tema dello sviluppo del potenziale umano. La tesi di Ericsson, successivamente ripresa e ahimè banalizzata da molti, è che chiunque, indipendentemente dal talento, possa diventare molto molto bravo in una disciplina – sportiva, artistica o intellettuale – grazie a un’applicazione costante nel tempo (le famose 10.000 ore di esercizio) e a un metodo di allenamento efficace.
“Ho imparato a sentirmi a mio agio con i concetti di fallimento e insuccesso: se tu vuoi ottenere innovazione, devi concedere il permesso sbagliare.”
Qual è il ruolo degli errori all'interno di questo metodo?
Per Ericsson agire sugli errori è fondamentale: significa individuarli, capirne l’origine e allenarsi per correggerli. È un percorso che presuppone due cose: immediatezza nella restituzione dei feedback rispetto agli errori e piena collaborazione tra chi insegna e chi impara. L’esatto contrario di certi sistemi di valutazione, tanto impietosi quanto sterili.
Questa idea del feedback immediato come chiave per correggersi e migliorarsi appare abbastanza intuitiva se applicata al mondo dello sport o allo studio di uno strumento musicale. Puoi farcene un esempio calato in un contesto professionale, dove l’obiettivo è migliorare le prestazioni di persone già formate e che lavorano?
Gli esempi li fa Ericsson stesso nel suo libro. I più significativi riguardano due contesti estremi, dove gli errori si pagano con la morte, propria o degli altri: l’addestramento dei piloti militari e la formazione dei radiologi impegnati in programmi di screening e prevenzione. Questi ultimi sono chiamati a capire la presenza di un tumore, spesso allo stadio iniziale, dalle immagini di una Tac o una risonanza; non sanno nulla della storia del paziente e rischiano di non sapere mai se la loro diagnosi è giusta o sbagliata, confermata o smentita da ulteriori esami e approfondimenti.
In sostanza questi medici accumulano anni di esperienza ma, in assenza di feedback, questa stessa esperienza non si traduce in un progresso delle loro prestazioni, in una migliore capacità di interpretare correttamente le immagini più ambigue o i casi più rari. Qual è la soluzione proposta da Ericsson?
La realizzazione di un archivio digitale di immagini relative a casi di cui si sapesse perfettamente l’esito e la storia clinica. Su queste immagini, scelte soprattutto tra i casi più ambigui o rari, i radiologi potevano esercitarsi, formulando diagnosi cui corrispondeva un feedback immediato. E, nel caso di diagnosi sbagliata, un semplice programma informatico avrebbe mostrato loro altre immagini simili, per aiutarli ad allenarsi sui loro punti deboli. In pratica si è fornito ai radiologi un vero e proprio simulatore, uno strumento di formazione pratica, non teorica, orientato al risultato, al saper fare.
Ultimo punto. Ericsson sfata il mito del talento naturale e rende la strada verso il miglioramento apparentemente democratica, alla portata di tutti. Di fatto, però, sostituisce il talento con due qualità altrettanto difficili da possedere ed esercitare: costanza e forza di volontà. Senza di loro non si va da nessuna parte. Sei d’accordo?
Sì. Costanza significa esercitarsi tutti i giorni, spingendo però sempre un po’ più in alto il limite da superare. Per farlo occorre una forza di volontà che può inizialmente scaturire dall’entusiasmo o dalla passione ma deve poi essere alimentata nel tempo, ad esempio dalla soddisfazione per i risultati raggiunti e dal loro riconoscimento anche da parte degli altri. Nei contesti aziendali spesso ci si trova in ruoli dove il vero rischio sono la ripetitività e la noia che diventano così i principali ostacoli nel percorso verso il miglioramento.
Va anche detto che per Ericsson c’è un ulteriore elemento chiave da aggiungere a costanza, forza di volontà e allenamento: la presenza di un buon allenatore, di un tutor, di un punto di riferimento. Da soli non si va da nessuna parte. In un’azienda l’allenatore migliore è rappresentato da un leader che alle competenze tecniche aggiunga doti motivazionali e una grande sensibilità nel creare un clima di lavoro sereno e collaborativo.