Quando si parla di risorse umane per molte aziende l’unico dato significativo corrisponde a una voce di bilancio: “costi del personale”.
Il vero valore delle persone lo si scopre soltanto quando se ne vanno. E che le persone se ne vadano, non è più così raro.
In questi mesi sta emergendo anche in Italia un fenomeno, definito con l’espressione Great Resignation, che lo scorso anno ha caratterizzato il mercato del lavoro negli Stati Uniti. Ne parla, ad esempio, il Sole 24 Ore in un articolo di pochi giorni fa: Great Resignation: perché è un fenomeno in crescita e come rallentarla?
Great Resignation significa letteralmente “grande dimissione” e si riferisce al record di dimissioni volontarie registrato oltreoceano nel corso del 2021: un totale di oltre 47 milioni di americani che hanno lasciato il proprio lavoro, talvolta – ed è questo l’elemento significativo – senza averne ancora trovato con certezza uno di nuovo.
Perché accade? In parte anche per una revisione della gerarchia delle cose importanti della vita che gli anni di pandemia hanno fatto emergere con forza in molti di noi.
L’altro lato della medaglia, per le aziende, è la difficoltà di sostituire chi se ne va con figure altrettanto specializzate e produttive nel breve periodo.
Proviamo dunque a capire due cose:
- quali sono gli indicatori, i numeri che un imprenditore deve tenere sott’occhio per monitorare lo stato di salute delle risorse umane in azienda?
- quali sono le strategie da adottare per aumentare la fidelizzazione da parte del personale?
Il tasso di turnover: che cos’è e come si calcola?
Partiamo con i numeri. La metrica per eccellenza, in materia di risorse umane, è il tasso di turnover che misura i flussi di personale in entrata e in uscita dall’azienda e li mette in relazione con il numero totale dei dipendenti.
Più che di un indicatore, è il caso di parlare di un pacchetto di indicatori, che comprende:
1. Tasso di turnover complessivo: prende in considerazione la somma di tutti i dipendenti che hanno lasciato l’azienda (per dimissioni, per licenziamento, per pensionamento, per scadenza del contratto) e di tutti i dipendenti che sono entrati in azienda in un determinato periodo. La formula per calcolarlo è questa:
2. Tasso di turnover negativo: prende in considerazione solo i dipendenti che hanno lasciato l’azienda. Si calcola così:
3. Tasso di turnover positivo: prende in considerazione solo i dipendenti che sono entrati in azienda. Si calcola così:
Tasso di turnover: alto o basso?
I numeri vanno prima misurati, poi interpretati. Un tasso di turnover complessivo inferiore al 5% è un dato positivo, a patto che non si traduca in un’eccessiva staticità dell’organico di un’azienda. Un turnover superiore al 15% è in generale un dato negativo ma può essere giustificato in contesti dove prevale l’impiego di manodopera poco qualificata.
Passando da un’analisi quantitativa a un approccio qualitativo, si parla spesso di turnover fisiologico e di turnover patologico.
Tasso di turnover: fisiologico o patologico?
Nel caso di turnover fisiologico le entrate e le uscite sono programmate e gestite, risultano collegate al Ciclo di vita dell’azienda e alle Politiche interne di Age Management, non impattano se non in misura minima sulla continuità aziendale.
Quando invece aumentano i casi di dimissioni volontarie, improvvise e non programmate, si parla di turnover patologico. Spesso il problema non riguarda solo chi se ne va ma è il sintomo di un malessere più ampio che può coinvolgere l’azienda a livelli diversi: mancanza di prospettive di carriera e scarso riconoscimento del merito, ambiente tossico, rapporti umani tra colleghi o con i responsabili deteriorati, carichi di lavoro eccessivi e scarsa propensione ad accogliere richieste di flessibilità o di maggior equilibrio tra vita e lavoro da parte dei vertici aziendali .
Dimissioni e fuga di competenze: come evitarla?
Esistono strategie e strumenti non particolarmente onerosi per gestire un tasso di turnover volontario troppo elevato. Proviamo a passarli rapidamente in rassegna.
- Una buona abitudine: il colloquio d’uscita.
A giochi fatti, ovvero a dimissioni ormai ratificate da parte del collaboratore, è sempre opportuno fare un “exit interview”, un vero e proprio colloquio d’addio. Serve all’azienda per capire i motivi reali e profondi di chi se ne va e farne tesoro per il futuro. - Una prassi ancora migliore: la “stay conversation”.
Secondo gli esperti almeno la metà delle dimissioni volontarie sono evitabili. Programmare dei colloqui periodici individuali tra responsabili e dipendenti può essere uno strumento semplice ed efficace per riuscirci. Si tratta di conversazioni brevi, al massimo di 15 minuti, utili a captare l’insoddisfazione di un collaboratore prima che si trasformi in vero e proprio disagio. Titolari e responsabili che rifuggono da questi colloqui, per paura di ascoltare lamentele e ricevere richieste cui sarebbe difficile rispondere, mettono soltanto la testa sotto la sabbia di fronte a problemi che prima o poi emergeranno comunque. - Utilizzare la formazione come incentivo.
Offrire con regolarità opportunità di formazione professionalizzante, al di fuori di quella obbligatoria legata alla sicurezza, può essere un ottimo incentivo per legare i dipendenti all’azienda, rafforzare la loro motivazione e aumentare il livello di competenze interne: un’azione che comporta dunque un vantaggio reciproco senza aumentare i costi fissi di struttura. - Sfruttare le potenzialità del welfare aziendale.
Grazie alle novità legislative degli ultimi anni, il welfare aziendale è diventato lo strumento ideale per offrire al dipendente un reddito integrativo, sotto diverse forme, a condizioni vantaggiose anche per la fiscalità aziendale.
Ne abbiamo parlato ampiamente in questo articolo Welfare aziendale per le PMI: opportunità per le imprese e vantaggi per i dipendenti, in relazione soprattutto alla realtà di aziende medio-piccole. Spesso il sostegno in termini di welfare risponde proprio a quelle esigenze di protezione, sicurezza e benessere che sono diventare prioritarie nella scala di valori di molte persone in questi due ultimi anni.
Dimissioni e assunzioni: una questione di reputazione
Di reputazione aziendale, come valore fondamentale e troppo spesso sottovalutato da parte delle imprese, abbiamo parlato recentemente. Qui possiamo aggiungere che c’è un doppio legame tra la capacità di un’azienda di legare a sé i propri dipendenti e la reputazione aziendale.
Da un lato il malumore e la fuga dei dipendenti causano un danno crescente alla reputazione di un’impresa. Dall’altro lato la reputazione di un’azienda è un fattore importante nell’attirare o respingere potenziali candidati.
Una spirale fatta di dimissioni, perdita di reputazione e difficoltà ad attirare nuove risorse può innescare un circolo vizioso pericoloso in un frangente come quello odierno, caratterizzato da una sempre maggiore difficoltà nella ricerca di personale competente e specializzato.